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L'ESTATE DI KIKUJIRO
(KIKUJIRO NO NATSU)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 maggio 1999
 
di Takeshi Kitano, con T.K., Yusuke Sekigushi, Kayoko Kishimoto, Kazuko Yoshiyuki. (Giappone, 1999)
 
HANA (fiore) + BI (fuoco) = HANA-BI (fuochi d'artificio). Il risultato dell'equazione ci ha dato non soltanto il film più equilibrato di Takeshi Kitano, ma il suo capolavoro estetico e poetico. Dopo quel film estremo e lancinante, nel quale colui che è ormai considerato il più grande fra i registi giapponesi della nuova generazione riusciva a fondere, nel racconto dell'ultimo viaggio di un marito che accompagna la moglie affetta da un male incurabile, la sua famosa violenza ad un insospettabile pudore lirico, era difficile immaginare come il regista potesse superarsi. E, difatti, ha scelto di ritornare indietro: L'ESTATE DI KIKUJIRO è un aneddoto semplicissimo, ai limiti del minimalismo e dell'ingenuità. Tanto che qualcuno ha parlato, banalizzando a casaccio, di film per bambini. Quello di un mezzo gangster imbranato, piuttosto aggressivo oltre che inguaribilmente dedito al gioco, che s'incarica di accompagnare un ragazzino dall'altra parte del Giappone, alla ricerca della madre mai conosciuta. Road-movie, itinerario rischioso come pochi altri: perché situato ai limiti del melodramma, dell'effetto facile, lacrimevole o ridanciano.

Ma Kitano si affida saggiamente, in un primo tempo, a due elementi essenziali: la scelta di un ragazzino non particolarmente carino o manierato; e quella di sé stesso, nelle vesti già note di straordinario attore: impassibile come il più duro dei samurai, ma egualmente vulnerabile, paradossale e assurdo. Secondo la linea tipica del road-movie, il film si avvia così delicatamente e umoristicamente per il suo cammino. Poi, progressivamente, ecco una serie d'incontri con personaggi lunari (due irresistibili motociclisti dalla faccia patibolare ma dal cuore tenero), che trasformano il delicato rapporto a due. Ecco, soprattutto, farsi largo un'inattesa dimensione surrealista: fatta di gag tracciate con leggerezza incantata, una malinconia tanto delicata da farsi sovversiva, un grafismo astratto che colma progressivamente d'invenzioni poetiche il vuoto sentimentale del bambino. E quello di un film, fatto di niente e di tutto. Di un'umiltà di mezzi toccati dalla grazia. Del dono impareggiabile di uno sguardo incantato, che finisce per conquistarsi un suo peso indelebile nella nostra memoria.


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